Del Navigare Cercandosi e altre derive

E’ raro che l’arte si dia con la sorgività di un atto naturale. Quando ciò accade, è uno stato di grazia: defluisce fresca e irruenta dall’imo, senza altra sollecitazione che la propria giovanile vitalità. Occorre solo individuare le polle e arginarne la dispersione iniziale, perché prenda corso sicuro. I fortunati che ne sono portatori la riconoscono in un modo che direi fisiologico, ed è ragione di grato appagamento dare seguito a quella pulsione che si libera, più che urgere, nella spontaneità dei gesti che fissano i telai dei segni, agglutinano le forme plastiche, determinano la fioritura del colore.

Più spesso l’arte è una latenza. E’ un umore che circola nella rete linfatica e pervade i tessuti, tonificandoli, ma non si manifesta se non in stille intense e fulminanti. Individuare la vena sottesa, e farla tracimare in fonte cui dissetarsi, è impresa in diversa misura trepida e defatigante. Chi vive codesta condizione di travaglio, avverte un’arsura che richiede un qualche sollievo. E’ un pungolo indeterminato quanto persistente, un gorgoglio profondo che si traduce in irrequietudine e induce a ricercare in situazioni e accadimenti mondani, lo scioglimento di nodi invero intricati, la risposta a domande confusamente formulate.

La conseguenza pratica di quella tensione è un girovagare nei territori sconfinati della cultura, un navigare quasi alla deriva, qua e là sondando dottrine omologate, discipline canoniche, tecniche cognitive le cui indicazioni, parziali e anche devianti, risultano tuttavia utili a tracciare la rotta di avvicinamento all’arcipelago delle possibili proiezioni di un’irrequietudine interiore che è fervida e creativa. Sino all’approdo all’isola predestinata in cui il naufrago, ormai navigatore, riconosce il luogo ove si dileguano le ombre interiori, facendosi segni e forme significanti, suoni e colori, parole che restituiscono la sua immagine rispecchiata nelle molteplici e mutevoli apparenze del mondo.

Nel caso di Giovanni Greppi l’arte è stata l’esito del cercarsi, appunto girovagando in ambiti di conoscenza diversi ed eteronomi, con scelte talora convenzionali, in ossequio alla tradizione o anche solo alle aspettative parentali o dettate dalla necessità di dotarsi di un’attrezzatura adeguata per affrontare l’arena civile, talaltra vocazionali per quanto indeterminate e alla fine insoddisfacenti, comunque affrontate con una curiosità e un’intelligenza agili e inappagate nelle quali non è difficile scorgere, a posteriori, i tratti peculiari di una personalità tendenzialmente creativa, che peraltro si manifesta con sporadici intensi episodi pittorici, nel corso degli anni formativi.

Fattore determinante nella scelta finalmente maturata di dedicarsi all’arte, fu per Greppi l’incontro con Gianni Dova.. Giocò certo la disponibilità di Dova al colloquio con quel giovane e ancora acerbo pittore, tuttavia assai sensibile e motivato, desideroso di mettere a fuoco la propria vocazione artistica e di verificarla al confronto con un maestro il cui mondo di visione egli avvertiva oscuramente congenere, e che faceva per simpatia risuonare, interiormente, le corde di uno strumento segreto che sapeva raggiungere i recessi dell’animo, e provocare risposte in forma di emozioni estetiche.

Il Dova incrociato e subito amato da Greppi non era quello dei mostri totemici, surrealisticamente evocati da una tensione onirica e immersi in una sorta di liquida spazialità dai riflessi cristallini. Era piuttosto il pittore di Carantec e della Camargue selvaggia, impegnato a discernere la struttura sottesa alla realtà fenomenica, sotto specie di acque e terra e vegetazione composte in un tessuto primigenio, che lo sguardo del pittore attraversava e restituiva in ampie pezzature di una materia fluida, tempestata di colpi di luce degne del Monet delle “Ninfee”, variegata in una gamma di colori che ricordano i simbolisti della scuola di Pont Aven e, loro tramite, il mondo esotico delle stampe giapponesi.

Il fattore Dova è stato determinante nella rivelazione di Greppi alla pittura, ossia a quell’aspetto giacente e sommerso della personalità che si sarebbe manifestato non già come un porto di quiete, segno finalmente esplicito della propria vocazione, ma come innesco di una catena di eventi visivi che dovevano complicare la cognizione della realtà, nonché sciogliere nodi che la mente di ciascuno prefigura davanti il mistero del creato.

Il passaggio dall’illuminazione folgorante all’espressione organica e originale di un autonomo “pensiero visivo” , è stato agevole ma non meccanico. Greppi aveva bisogno di mettere a punto gli elementi linguistici e tecnici per simulare sulla superficie l’intuizione dell’illimitata estensione e complessità del reale, in cui sono contenute tutte le forme ipotizzabili dall’immaginazione, ma date a uno stato che diremmo mutageno, quindi imprendibili e irrapresentabili in quanto cose o presenze fisicamente identificate, pena la precipitazione della loro ricchezza semantica, la riduzione del loro divenire all’inerzia di uno schema identificativo.

La verità della conoscenza è sicuramente un dato interiore, e quanto più si compie la comunione dell’essere con lo spirito del mondo, tanto più si affina la conoscenza intuitiva e l’esperienza spirituale della totalità.

Avendo maturato il convincimento della propria vocazione artistica e individuato un ambito poetico e concettuale capace di nutrire di significato una ricerca pittorica non casuale ed effimera, si poneva il problema del codice e del canale, ossia della tecnica e del linguaggio adeguati a rendere espressivi i contenuti intravisti. Occorre pur elaborare la lingua per comunicare con accettabile approssimazione, l’intuizione poetica della coincidenza tra l’io e il mondo, e dunque della realizzazione dell’io nella sua dispersione nel mondo.

Molto importante, in questa fase, fu la conoscenza di Swietlan Kraczyna, maestro di incisione alla scuola internazionale de’ Il Bisonte, a Firenze, e creatore di una tecnica incisoria a più lastre idonea a raggiungere, con le proprietà tradizionali del segno grafico, i valori più sensibili e preziosi del colore. Le opere qui pubblicate costituiscono la sintesi e l’approdo di Greppi a un linguaggio proprio e probo. Per qualità formale e tenuta stilistica, esse dimostrano come sia stato decisivo l’incontro con Kraczyna. Non a caso sono tutte incisioni: medie e grandi tavole singolarmente autonome e compiute, ma che appaiono ciascuna la premessa e lo sviluppo dell’altra. La scansione cronologica delle lastre incise, e la tipologia delle varianti stilistiche e delle inquadrature più che dei soggetti, sono innegabili e documentate con una certa puntualità dall’artista, ma l’impressione è di un insieme organico che rende secondaria l’analisi delle fasi in cui si è compiuto il processo evolutivo. Ciò depone per l’autenticità di un’esperienza tecnica che evidentemente possedeva i requisiti operativi per soddisfare esigenze espressive e concetuali così sofisticate.

L’arte non consiste nella tecnica: è lapalissiano, ma non può prescinderne, anche quando questa si esplica su un piano puramente mentale, negando dunque il proprio statuto fisico, ossia l’opera, o addirittura consistendo in un esercizio di progressivo annullamento della soggettività corporale e psicologica per accedere a una condizione di sintonia con lo spirito della natura, le cui voci non possono concretizzarsi che nella modulazione sonora o vibrazione dell’animo, come nella pratica zen.

Nel caso dell’incisione a più lastre, la tecnica mantiene un ruolo centrale poichè il divenire della forma, e dunque il principio rappresentativo del divenire universale, è intrinseco alla successione degli interventi incisori sulle lastre e delle corrispondenti fasi di stampa, per cui l’immagine cambia di stato in stato: si struttura e si complica man mano che si sovrappongono, con le lastre, ulteriori segni e insinuazioni materiche e indizi figurali alla semplificata e diremmo essenziale o originante, figura iniziale.

La lastra conclusiva del ciclo di stampa è ultima solo perchè l’artista decide di interrompere lo scandaglio della materia e la definizione visiva dell’immagine, ma il processo potrebbe seguitare per ulteriori stati. Le immagini che ne risultano sono una stratificazione visiva che consente perlustrazioni simultanee in profondità e in superficie, alla ricerca di gemme che rendano almeno l’idea del fluire di energia che pervade e sommuove ogni fibra della materia.

Tanto più appropriata e significativa siffatta tecnica, nel caso di Greppi che predilige immagini di fondali e distese marine, cieli vorticosi, visioni rarefatte della natura in cui dominano gli elementi liquidi ed eterei, sugli altri per definizione mutevoli. Ama altresì indagare i temi prescelti in serie di opere che, mutando la combinazione relativa delle parti, moltiplicano ulteriormente, per l’omologia formale e visiva, le immagini già abbastanza composite di determinati aspetti della natura. Sono i suoi “esercizi di stile”, diremmo con Queneau, variazioni che sovente interessano solo l’assetto morfologico di un’immagine che, nella sostanza, rimane la stessa, e mutano dunque la frequenza, l’orientamento e la dinamica dei segni nel tessuto visivo in diagonali, ondulazioni, vortici; le dominanze cromatiche; la distribuzione e l’incidenza della luce.

Meno frequentemente le variazioni investono la struttura della forma pittorica, e dunque muta la qualità dell’immagine. Abbiamo, allora, veri e propri inserti che costituiscono una lettura particolare del tema. Poniamo le versioni diurna e notturna del Vortice, entrambe concepite ad ampie pezzature informali che riverberano nelle linee di confine dei campi cromatici, i quali sono contrassegnati, nella veduta diurna da colori di timbro deciso, in quella notturna da una gamma sontuosa di bruni bluastri e di viola accordati con sicuro gusto tonale, in un paramento di notevole eleganza. Sottolineerei la diversa concezione formale dei tessuti pittorici, i cui ritmi sono sempre governati da una sorta di spirito dionisiaco della musica (Greppi cita Bach, “Preludio e fuga in la minore”, per il suo Fondale II, mutamento, ma potrebbe, per questa e altre immersioni paniche, egualmente evocare Debussy). Ebbene i tessuti risultano frantumati e increspati, maculati con un effetto quasi di negativo-positivo o pezzati e striati, secondo la profondità delle masse implicate e dei moti che le percorrono e le agitano, determinando semplici ramezzature, dolci ondulazioni, correnti soterranee, gorghi o vortici. Ricorderei ancora le due tavole, tipologicamente isolate, della serie Tra le foglie, in cui la sfocatura ottica dell’immagine fotolitografica crea un effetto di dissolvenza delle forme, che trapassano l’una nell’altra come uno sfumato leonardesco.

Un ulteriore elemento distintivo di queste tavole è il carattere aperto della composizione, ossia l’inquadratura vuoi compendiaria, e dunque mirata al rilevamento delle strutture plastiche, vuoi ravvicinata con primi piani che evidenziano il dettaglio. In ogni caso, i tagli netti dei margini attestano che la superficie figurata è una porzione circoscritta di un campo che si intuisce illimitato, delle cui proprietà, peraltro, è lo specchio fedele.

L’invito sottaciuto, ma irresistibile, di queste incisioni è a immergersi nell’infinito, al modo leopardiano: a perdersi, per conoscersi, nel mare dell’essere. Greppi porge con sincerità e letizia le proprie “riduzioni” visive dell’infinitudine a figure acquoree, suggerendo che nell’inesauribile laboratorio della natura esse sono le fonti e vorrei dire le matrici e gli archetipi dell’immaginario umano, il collettivo e l’individuale.

Risalire a quelle fonti può avere il senso della ricostruzione della propria storia intima, come un viaggio di Ulisse in cui gli incontri e le distrazioni, i misteri e le meraviglie costituiscano gli approdi provvisori di un uomo (intelligenza e sensibilità) alla ricerca di sè nell’altro da sè, e implicitamente dell’alterità insita nella radice profonda della psiche. Nel caso di Greppi, ad esempio, il viaggio gli ha consentito, tra l’altro, di riscoprire un suo ascendente polinesiano, non a caso donna di imponenza giunonica e regina. Pur essendo un personaggio storico appartenente alla genealogia di Greppi, la figura dell’antenata si profila mitica. Persino nel nome (Arii Taimai, Marama-Figlia del Mare) la sua presenza rimanda all’elemento liquido: la grande placenta primordiale del mare. E qui potrebbero innescarsi catene associative e analogiche che condurrebbero lontano, sul piano evocativo degli archetipi che diremmo amniotici. Ma non possiamo seguire quelle tracce.

Per concludere, vorrei osservare che il viaggiatore non può dimenticare a una qualche stazione la propria cultura, in questo caso specificatamente il corredo visivo che entra, assimilato nel processo formativo. Non si può nella generalità dei casi, tanto meno in quello di Greppi, che è artista provveduto, attento ai contesti culturali – segnatamente visivi – entro cui si colloca la sua ricerca, e alle connessioni linguistiche e stilistiche con personalità o tendenze diffuse nel panorama artistico internazionale. Alcune corrispondenze le abbiamo già indicate nelle figure dei “maestri” diretti; altre potremmo individuarle in area informale, e ancor più sul piano di un’astrazione simbolica che attinge alla natura i materiale visivi e gli spunti formali di cui si nutra l’immaginazione. Non tanto maestri riconoscibili o referenti di movimenti o di scuole, dunque, sibbene una conoscenza sicura e critica, pronta ad accogliere, del cosiddetto “sistema” dell’arte, solo le indicazioni tecniche che coincidono con un’esigenza espressiva autentica e possono sciogliere nodi e questioni conoscitive ed esistenziali di un uomo pienamente calato nel proprio tempo.

Nicola Micieli