Su la Pietà

L’ultima sequenza immaginativa realizzata da Giovanni Greppi pone all¹attenzione notevoli aspetti interpretativi circa la morfologia e l’iconografia del suo intervento che evidentemente è anche insubordinato all’integrità espressiva del genere grafico, e circa tutto quanto tradizionalmente attiene ad essa, comprese tradizione dell’applicazione strumentale e serialità riproduttiva. Nondimeno vorrei considerare queste elaborazioni come appartenenti al campo dell’incisione, sebbene gli aspetti estetici ottenuti siano in sostanza identici agli esiti pittorici già realizzati dall’artista, risultato particolare determinato dall’ibrido ormai largamente accolto, prodotto 
associando aspetti fotografici e pittorici.
Direi, allora, che questi lavori sono nell’ambito della spregiudicata multimedialità – apparentemente, ma non sempre, funzionale – caratterizzante l’arte figurativa in quest’inizio di 
secolo. L’aspetto più interessante, e in certo modo inquietante, che differenzia l’operazione da ogni altra consimile, non è già l’impiego di tecniche convogliate ad esiti irrituali, né l’incurante attrezzatura rapportata ai contenuti quanto, invece, il materiale, pragmatico utilizzo del significato insito nell’immagine prescelta. Poco importa, dunque, ed anche meno, individuare se questi fogli siano da inquadrare in una precisa categoria 
espressiva, come prodotto grafico (ma opere uniche) o piuttosto “dipinti” in cui l’utilizzo dell’immagine fotografica possa farsi risalire all’operatività collagistica praticata massicciamente alla maniera di Rauchenberg o di Warhol, sostituita dall’esito dell’elaborazione, tecnicamente complessa, nei procedimenti all’acquatinta, a vedersi poi 
simile alla litografia: né l’uno né l’altro, in effetti; ma se si vuole, l’uno e l’altro. L’interesse che induce all’analisi attenta di questi fogli è, dunque, la meditazione approfondita circa il senso più vero delle immagini utilizzate 
per costruire l’opera. Occorre apprezzarne il riferirsi alla storia dell’arte ed a quella civile, il significato ideologico, l’impegno sociale, l’intento politico (usando questo termine, inevitabilmente sospetto, nella
nobile accezione etimologica).
Le immagini di Greppi si compongono di vissuto quotidiano ed affetti, che 
affluiscono simultaneamente ad altre immagini, altrettanto impellenti, e ne sono sommerse, persino vanificate dalla sopravvenienza. È come se fossero resi visibili i pensieri confusi, eppure lancinanti, che l’inquietudine del 
vivere e la violenza degli avvenimenti dell’epoca nostra evocano nella mente di un uomo avverso ad ogni forma di sopraffazione dell’individuo. Queste immagini possono essere rovesciate o diversamente orientate senza 
avvertire alcuna differenza nel significante. È un mondo capovolto, stravolto, incongruo e spesso incomprensibile dove le forze si avvicendano senza fissare una relazione stabile con le coscienze individuali, giacché noi stessi siamo smarriti di fronte al ripetersi degli 
eventi maligni.
Chi esortava a ricordare per non ripetere gli errori delle guerre era illuso: gli errori si rifanno e talvolta sono le vittime di ieri a diventare gli aguzzini d’oggi. Gli errori si ripetono e, peggio, non solo 
contro i corpi ma contro le coscienze, e non raramente l’arma usata è proprio l’immagine, opportunamente manipolata per essere, spesso subdolamente, coattiva e violenta. Poiché l’icona testimoniale di simile tragica attualità è la fotografia soprattutto il fotoreportage bisogna riconoscere a Greppi lo “stato di necessità”, l’urgenza alla quale ha risposto raccogliendo immagini fotografiche per farne materialmente segno 
nella propria espressione poetica, anche perché la fotografia è in sé rapida, come procedura figurativa, perciò in grado di rispondere a pulsioni che richiedano risposte immediate.
Durante un secolo e più, in mano ai pittori, la fotocamera è stata considerata un’arma impropria oppure semplicemente un ambiguo supporto. Servirebbe, allora, risalire al lungo dibattito, ormai fattosi serrato dialogo, tra pittura e fotografia nella storia dell’arte: problematica che gli artisti d’ambo le parti hanno affrontato da subito, con sorti alterne, ed oggi sembra giunta, nel novero delle infinite possibilità di incontro verificate, ad una forma di integrazione tra i due linguaggi. In tal senso la sequenza ordita da Greppi mette in mostra una raffinata ulteriore possibilità. L’artista si è appropriato di immagini che lo hanno particolarmente provocato od emozionato, ricavate sia dalla cronaca sia 
dall’opera di altri artisti, sia da proprie fotografie, cercate attraverso un’ampia esplorazione che va dal rinascimento ai nostri giorni, da Michelangelo alla Neshat, immagini desunte, sovrapposte a testimonianze famigliari, tutte scelte seguendo le proprie emozioni e riflessioni. Si tratta, a ben vedere, di un meditato diario esistenziale. Così le foto di crudeltà belliche incrociano quelle della pietas cristiana e testimoniano, senza tempo, la naturale ferocia del genere umano, si contrappongono all’amore per i figli e stridono a confronto con l’esistenza affettiva. È la morte a fronte della vita, ma conseguenti e senza soluzione di continuità 
per la circolarità della dimensione temporale, in una continua infinita e reciproca sopraffazione. Cercando nobili radici per questo recente impegno di Greppi, se è ammesso confrontare la sua figurazione con forme espressive recenti o contemporanee, si possono ravvisare connessioni, ma soltanto esteriori, con note procedure di rappresentazione simultanea dove la parola scritta è utilizzata per aiutare la ricezione del significato complessivo, quale memoria e simultaneità affatto differente, però, dalle soluzioni futuriste, invece affine alle sovrapposizioni praticate nei fotogrammi da alcuni film e installazioni di Peter Greenaway dove si collega il filo dell’esperienza riferita con quella presente. Così, alternativamente, le immagini negative fagocitano quelle positive, e viceversa, prendendo forza o diminuendola secondo la dotazione cromatica con cui sono impresse. Non è agevole individuare le soccombenti. Occorre osservare attentamente, ricostruendone la forma mediante la denotazione cromatica, con un esplorazione accurata, ricercandone il profilo. Non c’è soluzione di continuità, tutto un intrico concitato, dominato dalla confusa sensazione che l’ordine formale della struttura sia, infine, frutto del disordine, della confusione determinata dagli aspetti contrastanti e simultanei che deteminano il pensiero ed il modo di vivere umani, un caos dominato dall’istinto di sopraffazione dell’uomo. In quest’ordinato disordine Greppi non assume veste di giudice ma definisce una partecipazione pietosa, confessando il proprio disagio nel comprendere. Entrano in campo allora le contrastanti culture, attraverso i loro segni, le loro scritture, la cattolica e l’islamica, il vaticinio apocalittico comune alle religioni in conflitto.
Non per caso, credo, ma forse per istinto pittorico, l’idea contrastante si accentua spesso, in queste immagini, con l’opposizione dei rossi e blu: colori che anche simbolicamente evocano pensieri divergenti, concetti che si allontanano prospetticamente l’uno dall’altro, mentre convivono nonostante la rispettiva repulsione. Non si tratta di una posizione improvvisamente assunta dall’artista rispondendo alla drammaticità degli avvenimenti in questa nostra epoca violenta; piuttosto è la maturazione di un’inquietudine che i poeti percepiscono fortemente, spesso anticipando i tempi, non perché siano veggenti ma in 
quanto addestrati dalla loro sensibilità ad essere intuitivamente vigili ed all’erta.
Alcun tempo fa Greppi avvertiva già un disagio, nel contemplare la natura dei boschi, ruscelli e stagioni vegetative, isolando il dettaglio, con un’attenzione ravvicinata, e trepidante, inquieta, intitolando una sua non dimenticata mostra d’opere del decennio 1987-1997, Nube della non-Conoscenza, in cui indagava le morfologie del soggetto tanto da vicino da perderne cognizione, come se lo sguardo analitico fosse nemico al godimento pieno della bellezza naturale, ne impedisse la comprensione. Non ho creduto neppure per un istante che si trattasse di opere ispirate alla serena contemplazione degli aspetti naturali della vegetazione, anche perché in alcune immagini v’erano (o non v’erano?) figure fantasma umane che sembravano più scomparire che apparire, ed era soprattutto la scelta cromatica ad avvertire di un’intima, forse inconscia, inquietudine. In questo interveniva pure l’alchimia delle elaborate teniche grafiche già utilizzate dall’artista, così ben commentate da Nicola Micieli, che nel suo lavoro hanno ormai rimpiazzato il tradizionale approccio, quale ideale linguaggio da cui trae l’esito migliore, pienamente adeguato alla sua necessità di verificare numerose versioni e possibilità nel proporre uno stesso concetto.
Molti autori provano e riprovano, per una malintesa aspirazione ad apparire originali, ad elaborare una propria caratteristica tecnica, convinti che da 
questa possa derivare un’identità, addirittura uno stile che li renda inconfondibili. La personalità poetica di un artista non consiste, però, nell’ideazione di una particolare elaborazione d’esecuzione; in ogni caso è inutile se non indirizzata al raggiungimento di un preciso scopo espressivo. Serve verificare, invece, quanto la tecnica impiegata contribuisce o no a dimostrare e chiarire l’idea poetica in proposito. La scelta del linguaggio, con gli idonei strumenti, deve corrispondere a ciò che s’intende esprimere (è anche questione d’armonia estetica, del giusto rapporto armonico tra contenuto e significato): ciò serve ad affermare e mantenere il privilegio dell’artista a decidere i termini del proprio metro espressivo, coniugando le esigenze contenutistiche con la ragione poetica.
L’artista non può dipendere da terminologie predefinite, soprattuto se è un creatore d’immagini, per il quale la semiotica è priva di suoni, perciò inevitabilmente costretta all’evocazione ottica, mediante il simbolo. Allora, anche la spregiudicata sovrapposizione incrociata delle matrici è significante, giacché l’idea della croce è per noi tutti, anche se laici, simbolo di espiazione e sofferenza innocente; ma anche si compongono, così, differenti concezioni dello spazio, contrapponendole, disorientando la visione, rendendola disagevole, nel richiedere un’attenta percezione. Per ogni pittore tutto è simbolo in ogni elemento che determini la forma estetica. Il senso stesso del dipingere è per ciascuno carico di simboliche valenze.
Benché l’opera di Greppi contenga aspetti spettacolari, il più attraente, come ho già rilevato, quello di non poterlo connotare categoricamente, e ciò concorra a conferirgli nobili attributi, non è questo che lo rende degno della molta considerazione meritata. È, invece, la posizione morale: tralasciare la provocazione gratuita priva di intelligenza, tanto in voga e facilmente accolta, gradita alla mentalità consumistica; la rinuncia all’uso di modi esasperatamente virtuosi funzionali alle speculazioni del mercato artistico; il negarsi all’indifferenza per le angosce che ossessionano le menti consapevoli, non drogate dalla propaganda politica di turno; la consapevolezza della sofferenza dei deboli e dei sottoposti; l’orrore per la morte violenta ed il sangue martire d’ogni parte ed ogni ideale, d’ogni tempo. Anche a fronte dell’esasperato individualismo, perfino narcisismo, del privato piccolo borghese, spesso banale, portato genericamente nei modi espressivi correnti, via dal conformismo dell’accademismo sperimentalista, l’ammirazione per la qualità contenutistica dell’opera di Greppi passa in seconda fila, anche se utilmente connessa alla verità poetica. Quanto valorizza e distingue la sua testimonianza, è il sopravvenire della pulsione passionale, e lo sdegno, la fiducia nella capacità dell’arte a raccontare, raffigurare e confermare la cultura della “propria” umanità, l’entità del sentimento nel partecipare alla storia dell’uomo.

 

Renzo Margonari